
Nemici, persecutori, buoni e cattivi, giusti e ingiusti. Ieri, al confine italiano, abbiamo incontrato la famiglia ucraina a cui avevamo offerto rifugio. Abbracci, sorrisi, e la loro voglia di proseguire, di non fermarsi, non fare sosta: non erano in gita, erano in fuga dal nemico, dalla morte. Nei loro occhi la gioia di sentirsi salvi ma, ancora increduli, non scendevano dall’auto. Guidandola per cinquecento chilometri, da solo, pensavo a chi, superandomi, mi prendeva per un rifugiato. Pensavo a loro quando, solo qualche mese fa, avevano scelto il colore dell’auto nuova e forse sognato di viaggiare in vacanza. Il baule, alle mie spalle, era ricolmo d’ogni vestito e oggetti vari. Tutto ciò che rimane di una vita a Kiev. “A domani”, li salutiamo nel loro accogliente rifugio provvisorio. Lei sbarra gli occhi: “andate lontano?”. No, a dieci minuti, stai tranquilla. It’s safe here. Sei al sicuro, qui. “A che ora ci dobbiamo alzare?”, chiede lui. Gli sorrido: non puntare la sveglia. Bahato spaty, dormite tanto.
