
Immaginiamo la condanna come frutto della decisione di un giudice, qualcuno che ci valuta colpevoli e meritevoli di un castigo. Nell’immaginario di ogni religione passata e presente c’è un giudizio sulla vita terrena dopo la morte. Anche nella grande scena del giudizio universale in Matteo c’è una sentenza emessa dal giudice re. Nel discorso a tu per tu però, fuori dalla metafora del tribunale divino, Gesù spiega a Nicodemo cosa intende per condanna. Essa non viene direttamente da Dio in modo attivo, come una pena che ti cade addosso e che non puoi sfuggire. Essa è piuttosto una auto condanna, frutto della libera scelta di non credere al Vangelo, al messaggio luminoso di Gesù. Non credendo alla luce, ci si esclude da essa e si resta nelle tenebre. Non ti ci manda Dio a spintoni, ma ci vai da solo non scegliendo la luce dell’Unigenito figlio di Dio. Direte: sì, ma è pur sempre condanna. Certo, ma non è nei piani di Dio il quale invece ha l’unico disegno di salvare il mondo. Del resto, se non ci fosse la possibilità di rifiutare la luce di Dio e amare le tenebre, che ne sarebbe della nostra libertà? Allergici come siamo ad ogni forma di pur vaga costrizione, non possiamo che apprezzare questo consenso informato al Paradiso.
Gv 3,16-21 Gesù disse a Nicodèmo: «Dio ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna. Dio, infatti, non ha mandato il Figlio nel mondo per condannare il mondo, ma perché il mondo sia salvato per mezzo di lui. Chi crede in lui non è condannato; ma chi non crede è già stato condannato, perché non ha creduto nel nome dell’unigenito Figlio di Dio.
E il giudizio è questo: la luce è venuta nel mondo, ma gli uomini hanno amato più le tenebre che la luce, perché le loro opere erano malvagie. Chiunque infatti fa il male, odia la luce, e non viene alla luce perché le sue opere non vengano riprovate. Invece chi fa la verità viene verso la luce, perché appaia chiaramente che le sue opere sono state fatte in Dio».